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Ciao!!! Benvenuti nel mio Blog... questo blog vuole essere una sorta di diario di una donna che vuole esprimere il proprio pensiero nell'ambito dell'economia e della finanza ... non vuole assolutamente risultare troppo serioso o noioso...ed è proprio per questo che affronto tali tematiche con una sorta di ironia...

Proprio perchè penso che una donna possa tenere, oltre ai famosi blog di make up, anche un blog che tratti tali argomentazioni eccomi qua!!!

... sono cosciente che i termini "economia" e "politica" siano due sostantivi femminili...ma questi purtroppo vengono ancora praticati prettamente al maschile... :))

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lunedì 20 agosto 2012

Angelo Di Carlo ce l' ha fatta...

Di solito non invidio nessuno ma queste di Enrico Mentana sono Le parole che ancora non so scrivere ma che avrei tanto voluto fossero mie...


Il giorno dopo la morte di Angelo Di Carlo i maggiori quotidiani italiani, il Corriere e la Repubblica, hanno dedicato alla notizia solo brevi trafiletti, relegati a pagina 18 e 19. Ma quel che impressiona è che entrambi hanno scelto usare nel titolo la stessa locuzione pietosa, “Non ce l’ha fatta”. Invece purtroppo Di Carlo ce l’ha fatta, perché si è dato fuoco nel pieno della notte nella piazza
deserta davanti a Montecitorio, sapendo che nessuno l’avrebbe potuto salvare dalle fiamme, e lasciando una lettera d’addio al figlio, insieme a tutto quel che aveva, 160 euro. Ce l’ha fatta a mettere in atto ciò che voleva, morire per protesta, quell’uomo che da due mesi aveva perso il lavoro di operaio in una ditta di pellami romagnola. Ma in qualche modo quei due articoli striminziti e secchi ci notificano anche che Di Carlo ce l’ha fatta a morire, ma non a dare tutto il senso che avrebbe sperato al suo sacrificio. Perché l’urlo finale della sua vita, contro una condizione di ingiustizia sempre più estesa e radicale per chi perde o non trova lavoro, non ha avuto che un’eco flebile sui giornali, molto meno di altre fiamme, quelle dei piromani sulle coste, o perfino quelle delle grigliate estive. L’avesse fatto per amore, o per religione, avrebbe avuto ben altro spazio, vien da pensare col cinismo del sistema informativo.
Ma certo in questo nostro Paese non possiamo continuare a considerare la questione del lavoro come una materia qualsiasi, meno seguita della riforma elettorale o delle polemiche tra Quirinale e magistrati palermitani. Perché purtroppo il senso di dignità di chi perde il posto, e l’insensibilità sociale che gli sta attorno, attutiscono quasi sempre il dramma della disoccupazione. Ma l’estensione di quella fascia della nostra società costretta a vivere di espedienti, precariato, lavoro nero, umiliazione, sussidi e parassitismo è ormai molto più che allarmante. Chi discute di questi temi professionalmente - politici, tecnici, sindacati, imprenditori, commercianti, studiosi e giornalisti – poi alla fine del mese intasca il suo stipendio o preleva i suoi guadagni di cassa, e non conosce direttamente le ricadute umane di ciò che discute o per cui perfino si batte. Perdere il credito sociale e anche quello bancario, intaccare quel che si conserva di prezioso e di caro, perdere visuale del futuro, di quel che si può fare, sperare, sognare.
Siamo un paese ricco, ancora. Ma la ricchezza è come un cono di luce che illumina solo una parte sempre meno ampia della nostra società, mentre il buio ci impedisce di guardare davvero al resto. I dati Eurostat riportati dal bravissimo Federico Fubini sul Corriere ci dicono che in cinque anni sono scomparsi 450mila posti di lavoro, e che tra inoccupati, senza lavoro, pensionati e irregolari sono due italiani su tre a non avere occupazione. Per la precisione in Italia lavorano solo 22,3 milioni di persone, immigrati compresi. Solo la Grecia sull’orlo del burrone ha una percentuale ancora più bassa di occupati. La responsabilità è di chi avrebbe dovuto operare per prevenire o lenire questo cancro sociale con le leggi e i provvedimenti governativi lungo tutti questi anni difficili. Insomma della politica. Quella stessa politica che all’unanimità ha taciuto nei sette giorni trascorsi tra il gesto disperato di Angelo Di Carlo e la sua morte. Solo dopo, sinistra centro e destra hanno snocciolato il solito rosario di frasi fatte, nei comunicati e nelle dichiarazioni. Bersani ha detto "i suicidi per motivi di lavoro sono un dramma immenso di fronte al quale possiamo solo chinarci a riflettere. La classe dirigente del Paese ha il dovere di trovare una risposta ai problemi dei cittadini". E Di Pietro: “I suicidi tra gli imprenditori e gli operai hanno ormai raggiunto un numero altissimo e questo è inaccettabile". C’è un’omissione clamorosa in queste e nelle altre dichiarazioni. Come se Di Carlo si fosse buttato da un ponte. Invece si è dato fuoco davanti alla Camera, là dove ha sede la democrazia rappresentativa della nostra Repubblica “fondata sul lavoro”.
(Queste cose le ho scritte per il prossimo numero di Vanity Fair. Per quel poco che conta invierò quanto mi danno per l'articolo al figlio di Di Carlo)

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