Di solito non invidio nessuno ma queste di Enrico Mentana sono Le parole che ancora non so scrivere ma che avrei tanto voluto fossero mie...
Il giorno dopo la morte di Angelo Di Carlo i
maggiori quotidiani italiani, il Corriere e la Repubblica, hanno
dedicato alla notizia solo brevi trafiletti, relegati a pagina 18 e 19.
Ma quel che impressiona è che entrambi hanno scelto usare nel titolo la
stessa locuzione pietosa, “Non ce l’ha fatta”. Invece purtroppo Di Carlo
ce l’ha fatta, perché si è dato fuoco nel pieno della notte nella
piazza
deserta davanti a Montecitorio,
sapendo che nessuno l’avrebbe potuto salvare dalle fiamme, e lasciando
una lettera d’addio al figlio, insieme a tutto quel che aveva, 160 euro.
Ce l’ha fatta a mettere in atto ciò che voleva, morire per protesta,
quell’uomo che da due mesi aveva perso il lavoro di operaio in una ditta
di pellami romagnola. Ma in qualche modo quei due articoli striminziti e
secchi ci notificano anche che Di Carlo ce l’ha fatta a morire, ma non a
dare tutto il senso che avrebbe sperato al suo sacrificio. Perché
l’urlo finale della sua vita, contro una condizione di ingiustizia
sempre più estesa e radicale per chi perde o non trova lavoro, non ha
avuto che un’eco flebile sui giornali, molto meno di altre fiamme,
quelle dei piromani sulle coste, o perfino quelle delle grigliate
estive. L’avesse fatto per amore, o per religione, avrebbe avuto ben
altro spazio, vien da pensare col cinismo del sistema informativo.
Ma certo in questo nostro Paese non possiamo continuare a considerare la
questione del lavoro come una materia qualsiasi, meno seguita della
riforma elettorale o delle polemiche tra Quirinale e magistrati
palermitani. Perché purtroppo il senso di dignità di chi perde il posto,
e l’insensibilità sociale che gli sta attorno, attutiscono quasi sempre
il dramma della disoccupazione. Ma l’estensione di quella fascia della
nostra società costretta a vivere di espedienti, precariato, lavoro
nero, umiliazione, sussidi e parassitismo è ormai molto più che
allarmante. Chi discute di questi temi professionalmente - politici,
tecnici, sindacati, imprenditori, commercianti, studiosi e giornalisti –
poi alla fine del mese intasca il suo stipendio o preleva i suoi
guadagni di cassa, e non conosce direttamente le ricadute umane di ciò
che discute o per cui perfino si batte. Perdere il credito sociale e
anche quello bancario, intaccare quel che si conserva di prezioso e di
caro, perdere visuale del futuro, di quel che si può fare, sperare,
sognare.
Siamo un paese ricco, ancora. Ma la ricchezza è come un
cono di luce che illumina solo una parte sempre meno ampia della nostra
società, mentre il buio ci impedisce di guardare davvero al resto. I
dati Eurostat riportati dal bravissimo Federico Fubini sul Corriere ci
dicono che in cinque anni sono scomparsi 450mila posti di lavoro, e che
tra inoccupati, senza lavoro, pensionati e irregolari sono due italiani
su tre a non avere occupazione. Per la precisione in Italia lavorano
solo 22,3 milioni di persone, immigrati compresi. Solo la Grecia
sull’orlo del burrone ha una percentuale ancora più bassa di occupati.
La responsabilità è di chi avrebbe dovuto operare per prevenire o lenire
questo cancro sociale con le leggi e i provvedimenti governativi lungo
tutti questi anni difficili. Insomma della politica. Quella stessa
politica che all’unanimità ha taciuto nei sette giorni trascorsi tra il
gesto disperato di Angelo Di Carlo e la sua morte. Solo dopo, sinistra
centro e destra hanno snocciolato il solito rosario di frasi fatte, nei
comunicati e nelle dichiarazioni. Bersani ha detto "i suicidi per motivi
di lavoro sono un dramma immenso di fronte al quale possiamo solo
chinarci a riflettere. La classe dirigente del Paese ha il dovere di
trovare una risposta ai problemi dei cittadini". E Di Pietro: “I suicidi
tra gli imprenditori e gli operai hanno ormai raggiunto un numero
altissimo e questo è inaccettabile". C’è un’omissione clamorosa in
queste e nelle altre dichiarazioni. Come se Di Carlo si fosse buttato da
un ponte. Invece si è dato fuoco davanti alla Camera, là dove ha sede
la democrazia rappresentativa della nostra Repubblica “fondata sul
lavoro”.
(Queste cose le ho scritte per il prossimo numero di Vanity
Fair. Per quel poco che conta invierò quanto mi danno per l'articolo al
figlio di Di Carlo)
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